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Dall’educazione autoritaria alla supremazia del figlio

Per prima cosa ci troviamo a fare i conti con l’idea che l’ambito familiare debba essere quello dell’armonia affettiva, del benessere, della felicità. Questa è un’idea relativamente recente, sviluppata nel Novecento, che nasce dopo secoli di relazioni familiari caratterizzate da una prospettiva più di natura contrattualistica: i figli nascevano per assicurare la discendenza o garantire il sostentamento economico. I rapporti erano fondamentalmente regolati da un’impostazione paterna di stampo autoritario: il padre comandava, puniva, stabiliva indiscutibilmente i sì e i no. Questo non significa che vi fosse una particolare attenzione educativa: i bambini più che altro crescevano vessati e costretti dentro a no tassativi che generavano sensi di colpa o paura.

Una volta finita l’epoca autoritaria, la prospettiva è diventata invece quella di stampo più materno: concentrata sulla cura, l’accudimento, il figlio posto al centro. L’attenzione a salvaguardarne tutti gli aspetti della crescita diventa preponderante al punto che si realizza una sorta di supremazia del figlio sul genitore, che abdica al proprio ruolo educativo per timore di ferire, procurare qualche danno allo sviluppo, ma anche soprattutto per timore del conflitto.

La difficoltà di dire “no”

Mamme e papà spesso temono che il no comprometta la relazione con i figli. Ma in realtà quell’ansia e quel senso di colpa che proviamo al timore di compromettere un legame così fondamentale attraverso un no, derivano da una matrice infantile che influenza e spesso tiranneggia la nostra competenza conflittuale. La mamma che non riesce a mandare la propria figlia di 6 anni a scuola perché dice che sta male e che i compagni o la maestra le direbbero cose terribili, il padre che non riesce a interrompere il figlio di 12 anni che continua ad usare il suo smartphone anche a tavola, si appellano a una personale difficoltà nel reggere la propria posizione di adulti che indirizzano, rassicurano, regolano, influenzano, attribuendo a queste azioni un effetto sul proprio figlio che loro non reggono. Queste matrici infantili impediscono ai genitori di occuparsi dei figli e li costringono a continuare a occuparsi di sé, delle proprie esperienze infantili nel tentativo di riscattarle e bonificarle. La nostra eventuale sofferenza e frustrazione infantile non hanno nulla a che fare con quella dei nostri figli. Queste matrici ci appartengono, ci hanno permesso di crescere e diventa difficile imparare a farne a meno, ma per certo non servono ai nostri figli.

Abbiamo spesso paura di entrare in conflitto con i nostri figli. Certamente facciamo fatica ad affrontare le lamentele, le richieste estenuanti, i capricci, le tensioni, le urla, ma al di là di questo, ciò che oggi gli adulti mi sembra facciano fatica a gestire più di tutto è la solitudine che deriva dal dire no. Le relazioni conflittuali implicano un elemento di separazione, di alterità e distanza, inevitabile conseguenza della fine dell’illusione che sia possibile realizzare un’unità fusionale non conflittuale. Da un lato dire no ci porta fuori da una sorta di dinamica alienante con cui tendiamo a chiuderci alle esigenze profonde dei nostri figli, a non ascoltarli e a preservare l’equilibrio della relazione senza però metterci in gioco. Dire no significa allora entrare in contatto, riconoscere che oltre a noi esiste anche l’altro. Ma il no è anche conflittuale: sostiene il rapporto e ne accetta le complicazioni, non rinunciandovi neanche in caso di contrasto.

Questi sono i no che servono: di madri e padri che mantengono aperta la relazione con i figli senza subirla. Non si tratta di no arbitrari, estemporanei, reattivi: nascono da un progetto educativo chiaro, e condiviso il più possibile tra i genitori, e hanno l’obiettivo di perseguirlo. conflittoSono i no che ci consentono di dare a nostro figlio, a nostra figlia, un’informazione precisa: “No, non è il momento …”, “No, questo non puoi farlo …”, ma al tempo stesso di mantenere la relazione, di restare in una prospettiva di apertura e di ascolto. Il no ha una funzione regolativa e di indirizzo che si integra bene con la componente affettiva e di legame con i figli. La conflittualità, i litigi, ci permettono di accorgerci che il gioco sta funzionando e che noi genitori siamo al posto giusto.

I “no” nelle diverse fasi di vita

I no che servono alla crescita dei nostri figli spesso non coincidono con i no che ci piacciono come genitori. Sono diversi a seconda dell’età dello sviluppo e rispondono a precise esigenze di crescita e individuazione.

  • Nella prima infanzia il no è quello del divieto. Il bambino o la bambina comincia a esplorare il mondo e incontra pericoli o attiva comportamenti che vanno educati, come i famosi “morsicatori” degli asili nido che purtroppo saggiano le guance altrui con i loro dentini aguzzi. Questi no, detti in modo chiaro, immediato e rassicurante, aiutano i bambini a costruirsi una segnaletica di base nel loro muoversi nello spazio. Sono semplici, privi di complicazioni, e non richiedono numerose quanto inutili spiegazioni per lo più incomprensibili ai piccoli.
  • Tra la prima e la seconda infanzia i no sono quelli del limite. Si tratta di un’età in cui progressivamente la centratura sul sé del bambino si evolve nelle relazioni tra i pari e nel rapporto con la realtà anche scolastica. In questa fase i no arginano e danno misura alle energie e alla sensazione di onnipotenza sul mondo. Sono no che producono frustrazione, ma in questo senso fondamentali per aiutare i bambini a cogliere i limiti delle proprie possibilità e attivare nuove risorse e competenze. Imparare a gestire la frustrazione che nasce dall’incontro con l’altro è una capacità fondamentale e protettiva per il futuro.
  • Nella seconda infanzia e nella preadolescenza il no è quello della regola: consente di consegnare ai ragazzi la bussola per orientarsi nel mondo. Si tratta di un no più complesso degli altri, che punta verso l’autonomia. Erroneamente alcuni pensano ancora che le regole siano limiti alla libertà personale, e invece ogni volta che diamo una regola creiamo uno spazio di separazione e definiamo degli ambiti di possibile esercizio della libertà, consentendo lo sviluppo dell’autonomia.
  • Nell’adolescenza invece il no è quello della resistenza. È un no che serve ai ragazzi per aiutarli a scoprire e portare avanti il proprio progetto di vita. Si tratta di mettere dei filtri, dei vincoli, da un lato perché la spinta verso l’autonomia non si tramuti in fuga da se stessi, dall’altro per aiutarli ad accorgersi di ciò che davvero si sta facendo. È un no difficile perché si manifesta spesso attraverso la conflittualità e richiede coraggio e capacità di interrogare e interrogarsi per mettersi davvero in ascolto dei nostri figli. Non possono più esserci no imposti o calati dall’alto ma occorre una negoziazione e la capacità di lasciar andare.

Ciascuno è legato ai propri meccanismi, soprattutto se complessi e nocivi: ne trae dei vantaggi fittizi di cui spesso non si accorge neanche e di cui fatica a liberarsi. Quante volte abbiamo la certezza che stiamo sbagliando eppure non riusciamo a fare diversamente? C’è un momento in cui i vantaggi finiscono di essere tali e diventano ostacoli per le relazioni con i nostri figli.

Se ogni volta allora che diciamo di no, che utilizziamo un no conflittuale, permettiamo ai bambini e ai ragazzi di cercare, di scoprire, di usare le loro risorse, lo stesso avviene per noi: utilizzare un no difficile consente a loro come a noi di attivarsi in prima persona, di metterci del proprio, di scardinare meccanismi e dinamiche poco funzionali all’educazione loro e all’evoluzione nostra.

Le paure dei genitori

  • Possiamo aver paura di far soffrire i nostri figli, confondendo sofferenza e frustrazione, magari dimenticando che più che il nostro rifiuto di fronte a una richiesta continua o impossibile, ciò che può davvero ferirli è la sensazione e lo spaesamento di accorgersi che tutto quello che vogliono o chiedono è sullo stesso piano, indifferente.“Va bene, ti compro quel vestito, anche se forse non è adatto alla tua età…” Come genitore non mi metto in ascolto profondo dei tuoi bisogni se tendo a soddisfare indifferentemente tutti quelli che affermi di avere. Oppure rischio, con questo mio atteggiamento di condiscendenza, di alimentare illusioni di onnipotenza che nello sviluppo possono diventare davvero problematiche: “Vuoi andare in vacanza in Grecia perché la tua amica del cuore va lì e altrimenti non ti diverti? Dai, vediamo di organizzarci… noi pensavamo a qualcosa di più vicino ma…”.
  • A volte si dice di no perché non si vuole apparire poco disponibile. “Sono un bravo padre, anche se torno tardi, stanco morto, racconto sempre all’infinito la stessa fiaba a mio figlio finché non si addormenta…” Mi chiedo: è necessario per crescere bene? Oppure forse sarebbe più necessario imparare ad addormentarsi da soli? Spesso purtroppo questo comportamento nasce dalla falsa idea che con i figli bisogna essere sempre disponibili: tendiamo a convincerci che i figli abbiano bisogno di tutto il nostro tempo, mentre serve una misura alla disponibilità, che cambia con le diverse fasi della vita e che permette ai figli di fare la loro parte.
  • C’è poi il timore di fare un’esperienza di separazione. “Sì, va bene, se ti senti più tranquilla così facciamo come dici tu…” Soprattutto quando il legame è fortemente materno, non dimentichiamo che all’origine la relazione madre-figlio è necessariamente simbiotica, può accadere che risulti difficile separarsi, anche simbolicamente con un no, che però comporta un cambio di posizione, un distacco. Il no determina uno spazio tra noi e nostri figli che non possiamo controllare e conoscere. Una separazione che è sinonimo di autonomia. Senza separazione, senza la distanza che deriva da una decisione educativa, i nostri figli non possono crescere e diventare grandi. Il no è un buon contributo a questo progetto!

 

(Del dott.Paolo Ragusa, tratto da UPPA)

 

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"Se nella parola genitore è iscritto l’atto del generare, nella parola genitorialità dovremmo trovare, seppure in maniera condensata, quello che la società si aspetta dagli adulti in quanto genitori; di conseguenza quello che lo Stato fa per sostenere la funzione genitoriale.

Siamo subito in un rapporto dialettico tra privato e pubblico, tra quella che è una spinta creativa largamente sostenuta da un bisogno di portare a compimento una propria visione di sé e del mondo, di buttare uno sguardo oltre il limite delle proprie esistenze e, d’altra parte, un compito pubblico che la società assegna che è quello di educare.

Sul generare la questione è oggi assai complessa: si genera sempre più tardi rispetto al periodo naturalmente fertile della donna, si genera per procura, la coppia genitoriale non ha più confini stabili e ristretti, ma si estende alle coppie omosessuali, alle famiglie allargate che devono affrontare equilibri delicati tra figli di genitori diversi, nei casi di fecondazione eterologa la coppia genitoriale è caricata dalla fantasia di un terzo, il donatore, presente nei pensieri anche se sconosciuto. Pensieri che conoscono bene i genitori adottivi, con l’aggiunta del compito di lenire una ferita all’origine.

Inutile aggiungere che in un quadro di tale complessità l’intervento pubblico, che in Italia è da sempre carente, rischia di naufragare o di essere manipolato a seconda delle scelte politiche o delle regole religiose.

Eppure i genitori sono, tra gli umani, gli esseri più esposti a quello che (a partire dal saggio di Freud del 1914) chiamiamo il lavoro del lutto. Tale lavoro, che significa la capacità di trattare con i sentimenti di delusione che inevitabilmente gli "oggetti" ci infliggono, è, nel caso dei genitori, diretto a una costante ricerca di equilibrio tra la necessità di investire i propri figli, sui propri figli, di tifare per loro, e una continua, vigile attenzione a che le aspettative nei loro confronti non costituiscano una cappa soffocante e le inevitabili delusioni non scardinino, magari silenziosamente, la fiducia e la speranza. Fiducia anche nel proprio ruolo di genitori, speranza nelle rispettive risorse.

E' lavoro di lutto quello che accompagna la nascita e che confronta i genitori allo scarto inevitabile tra bambino immaginato e bambino reale; è lavoro di lutto l'inserimento al nido, alla scuola materna, alla scuola elementare, ampliato dai primi non sempre incoraggianti confronti con altri modi di essere bambini, di essere genitori, di essere educatori; è lavoro di lutto quello che si presenta di fronte al figlio adolescente, in quanto esso mette al vivo, più degli altri momenti citati, assieme al tifo per il successo dei figli, il problema del succedersi delle generazioni e quindi il problema della propria morte.

Come resiste la coppia a questo tipo di pressioni? Come si distribuiscono compiti e ruoli tra i due o più genitori, quando le famiglie si allargano? Come lo Stato e le Istituzioni intervengono o potrebbero intervenire a rendere il lavoro dei genitori meno impossibile? E infine che cosa può dire, suggerire e fare la ricerca psicoanalitica al riguardo?

APPROFONDIMENTI

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Nascita della genitorialità

A cura di Sandra Maestro

Da sempre la psicoanalisi si è interessata della costruzione dei primi legami tra il neonato e le sue figure di attaccamento, la madre e il padre, per offrire dei modelli interpretativi sulle fasi iniziali dello sviluppo psicoaffettivo e dare al tempo stesso delle chiavi di lettura della sofferenza e del disagio.

Winnicott sosteneva che, "non esiste un bambino senza la madre". Questa affermazione, apparentemente paradossale, sta a significare che per comprendere il comportamento di un bebè, il filtro che l'osservatore deve utilizzare è quello dato dalle "rappresentazioni", consce e inconsce che i genitori hanno di lui.

Ma da dove scaturiscono queste rappresentazioni? Secondo Palacio Espasa ogni individuo nel diventare adulto sedimenta nel proprio inconscio delle immagini di se stesso bambino e dei propri genitori che vanno a costituire delle "identificazioni". Tali identificazioni si riattivano con la nascita del bambino nel complesso processo trasformativo che l'autore definisce "lutto evolutivo". La nascita del bambino comporta, infatti, l'inclusione di una "neoformazione" nella personalità del genitore, il "bambino reale", per natura diverso da quello immaginato, e la perdita dello statuto esclusivo di figlio, che normalmente tende a risolversi con l'identificazione da parte del neo-genitore con i propri genitori. Ma il bambino reale non è mai solo "il bambino", ma è anche il "bambino che i genitori avrebbero voluto essere..." e specularmente i genitori si identificano con "i genitori che avrebbero voluto avere..." Questa "gioco "di identificazioni incrociate è cruciale per la formazione dei primi legami ed è una delle chiavi di lettura per comprendere le interazioni tra genitori e figli.

Quindi per capire qualcosa di un bambino dobbiamo anche vedere ed ascoltare le persone che si prendono cura di lui. Dal punto di vista di Winnicot la "cura" prevede:

1) la "preoccupazione materna primaria" ovvero una condizione mentale della madre di intensa e totale dedizione al neonato capace di alimentare in lui l'illusione di essere tutt'uno con lei;

2) l'holding ovvero la capacità della madre di fungere da contenitore delle angosce del bambino, intervenendo per soddisfare i suoi bisogni emotivi e riuscendo a mettersi da parte nel momento in cui il bambino non ha bisogno di lei;

3) la "madre sufficientemente buona" cioè una madre che attivamente si adatta alle necessità del bambino, un adattamento attivo che a poco a poco diminuisce a seconda della capacità del bambino che cresce, di tollerare la "disillusione" e la frustrazione, conseguente al venir meno della totale corresponsione materna ai suoi bisogni emotivi.
Per Bion un'altra dimensione della cura materna è data dalla funzione di rêverie, ovvero uno stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli stimoli provenienti dal bambino e in particolare alle "identificazioni proiettive" legate alle intense angosce di morte, elicitate nel neonato dalla condizione di assoluta dipendenza. Attraverso la sua "funzione alfa", ovvero attraverso la sua capacità di pensiero, la madre metabolizza le ansie del bambino e gliele restituisce in un modo per lui più tollerabile.
Indipendentemente dalla declinazione che il concetto di cura ha per la psicoanalisi, il ruolo del padre è centrale, inizialmente per il sostegno dato alla madre, successivamente per la sua funzione di modulatore della separazione all'interno della coppia madre-bambino e per consentire passaggio da legami di tipo diadico a legami di tipo triadico.

Quindi per la psicoanalisi una dimensione centrale dell’ "l'ambiente" di crescita del bambino è rappresentata dall'assetto emotivo e dall'intrapsichico dei genitori, per la cui comprensione ed esplorazione servono contesti e strumenti specifici"

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Che significato ha? 

Il neonato, come ogni individuo, esprime lesue esigenze e i suoi sentimenti e lo fa, nel primo periodo della vita, anche e soprattutto attraverso il pianto. Questo rappresenta quindi la forma di comunicazione dei primi giorni di vita: è il linguaggio del bambino che richiama l'attenzione dei genitori per richiedere nutrimento, aiuto, protezione e conforto. É compito importante dei genitori imparare ad ascoltare e ad interpretare correttamente tale linguaggio.

Cosa fare?
É comprensibile che per molti neo-genitori sia difficile astenersi da un intervento immediato quando sentono il loro bimbo piangere disperato. Il consiglio è invece quello di attendere alcuni istanti prima di intervenire per cercare di capirne le motivazioni, senza "tamponare" (magari offrendo meccanicamente il ciuccio) e far tacere il piccolo non avendo compreso le sue richieste.

Il neonato ha bisogno di sviluppare la sua "voce", di esprimersi e comunicare: le radici della modalità di espressione vengono infatti poste fin dai primi giorni di vita.

Perché piange?
Il piccolo bimbo può piangere perché ha fame, ha il pannolino sporco, l'ambiente che lo circonda è troppo caldo o troppo freddo, se i rumori di sottofondo sono tali da provocargli fastidio o disagio o se ha dolore. Anche lo stato d'animo dei familiari può esserne causa, in quanto l'eccessivo nervosismo o ansietà possono trasmettersi facilmente.

Ascoltando le caratteristiche del pianto, in particolare il suo timbro, la sua intensità e durata, si possono ricavare tante informazioni. Molto schematicamente si possono individuare:
- il pianto da fame: il cui l'inizio è a bassa intensità per poi divenire più forte e ritmico;
- il pianto da dolore: intenso, forte fin dall'inizio e prolungato nel tempo con, a seguire, una fase di silenzio e presenza di singhiozzi alternati a brevi inspirazioni;
- il pianto da collera: simile al pianto da fame, ma con tonalità più bassa ed intensità costante.

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Che fare per tranquillizzarlo?
Occorre entrare in comunicazione con il bambino, senza eccessivi schematismi. Se il pianto non nasce da qualcosa che provoca dolore, fastidio, fame o sete probabilmente deriva dalla necessità di vicinanza e/o di contatto ed attenzione da parte dei genitori; sarà facile verificarlo facendo sentire la propria presenza senza paura di esagerare e di viziarlo. Nel tempo, il sentirsi vicini avverrà non soltanto attraverso il contatto fisico, ma anche e soprattutto attraverso la vista e l'ascolto della voce (soprattutto della mamma e del papà).
Se invece il pianto è frequente, difficile da interpretare ed il pediatra curante non individua una causa patologica, si può incoraggiare il bambino, con gradualità, a calmarsi da solo: i neonati, infatti, sono dotati fin dalla nascita di un sistema interno di auto-consolazione rappresentato dal riflesso di suzione e proprio dal pianto. Intervenendo non subito, ma dopo un lasso di tempo da aumentare gradualmente giorno dopo giorno, in molti casi l'intervento dei genitori non si renderà più necessario in quanto sarà il bambino stesso a smettere in breve tempo di piangere avendo imparato a calmarsi e rilassarsi.

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L'associazione Aquiloni sui temi dell'infanzia propone un ciclo di incontri presso il Negozio Pannolini e Affini aTorino, in via Monastir 8.

 

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"Essere genitori è davvero una grande responsabilità, per una semplice ma fondamentale ragione...

Il papà e la mamma sono il primo e più importante modello a cui il bambino nel corso della propria crescita darà credito. E nonostante nel tempo i punti di riferimento possano divenire anche altri (la scuola, il gruppo dei pari), i genitori, i loro insegnamenti e i messaggi che verranno trasmessi, occuperanno sempre un posto molto importante nell’identità di questo bambino, e successivamente futuro adulto.

I genitori sin dalle prime fasi dello sviluppo danno ai propri figli un imprinting molto importante su come vedere il mondo e come porsi. Se vedersi come persone capaci di affrontare e gestire le situazioni o meno.

Si tratta dell’ autostima che il bambino costruisce a partire dai primi messaggi che riceve, ed esperienze che vive. Immaginiamo che i genitori siano una sorta di specchio nel quale il bambino si riflette. E tale immagine sarà influenzata sia da come i genitori lo vedono, che dal loro modo di comportarsi e porsi nei confronti della vita."

link all'articolo: http://www.eticamente.net/43129/genitorialita-ansia.html