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Pochi temi legati alla salute scatenano dibattiti accesi quello delle vaccinazioni e l’argomento è, recentemente, tornato di grande attualità. Ma quali sono le ragioni più profonde alla base della paura delle vaccinazioni? La risposta è complessa. Le motivazioni del rifiuto fanno capo a meccanismi psicologici e cognitivi scritti nella natura umana, in parte legittimi e comprensibili.

Innanzitutto stiamo parlando della tutela del bene più prezioso, la salute propria e dei propri figli, reazioni emotive e di preoccupazione sono legittime. Il primo ostacolo “psicologico” è che, con la vaccinazione, sto facendo un atto medico volontario e attivo a una persona sana. La percezione dei rischi viene ingigantita dal fatto che ci stiamo dando la possibilità anche remota, di avere effetti collaterali per una minaccia (la malattia contro cui ci vacciniamo) che al momento della vaccinazione non abbiamo, perché siamo sani, e che percepiamo come lontanissima e, quindi, di fatto, impossibile da contrarre. Si tratta di una comune distorsione cognitiva: noi non vediamo più i danni di moltissime malattie infettive nella nostra vita quotidiana e “l'assenza di alcune malattie è come la libertà, ti accorgi di quanto sia importante solo quando l'hai persa».

Un altro fattore che può falsare la percezione dei rischi da vaccinazione è costituito dal verificarsi di un evento temporalmente successivo a una vaccinazione, ma non causato dalla vaccinazione. In questo caso il nostro cervello è portato a trarci in inganno, perché è biologicamente predisposto a trovare connessioni causa-effetto nel mondo che ci circonda, anche quando non ci sono. Il nostro sistema immunitario può gestire simultaneamente fino a 10.000 componenti antigeniche differenti eppure quei 6/7 antigeni a cui scegliamo volontariamente di sottoporlo ci sembrano responsabili di conseguenze terribili.

Così come ci ricorda quotidianamente la pubblicità qualunque farmaco può avere effetti indesiderati anche gravi. Bambini che hanno subito rari ma reali danni da vaccino ce ne sono stati e ce ne saranno ancora anche se il loro numero è molto inferiore a quello indotto dalle malattie per cui esistono i vaccini. Vaccinare equivale a rischiare ma l'alternativa, ovvero non vaccinare, è un rischio altrettanto se non di certo più grave da sostenere.

Quindi la scelta del genitore è sicuramente impegnativa e carica di pensieri. Il genitore ha diritto ad essere informato in maniera imparziale ed oggettiva. I sanitari hanno il compito etico/professionale di non esimersi dal condividere le informazioni e le evidenze scientifiche accurate. La scelta va anche sostenuta ed accompagnata e non sempre la modalità più partecipativa è la più efficace. Uno studio intitolato “The Architecture of Provider-Parent Vaccine Discussions at Health Supervision Visits”, pubblicato su Pediatrics nel 2013, ha esaminato il modo in cui i sanitari hanno discusso le raccomandazioni vaccinali con i genitori e come le diverse tecniche possono avere un impatto d'approvazione dei vaccini. Lo studio ha determinato che, se un sanitario avvia una conversazione con raccomandazioni sulle vaccinazioni utilizzando un “metodo presuntivo”, (come ad esempio: "Beh, dobbiamo fare qualche vaccinazione"), piuttosto che una modalità più partecipativa (come "Che cosa volete fare con le vaccinazioni?"), i genitori sono stati più propensi ad accettare con serenità le raccomandazioni del sanitario ed anche i genitori inizialmente esitanti hanno accettato le raccomandazioni alle vaccinazioni fornite dal sanitario se lo stesso ha continuato a perseguirle mostrando di non desistere dalle proprie convinzioni. Insomma i genitori per superare le normali preoccupazioni che talvolta gli impediscono la scelta necessitano di una guida sicura e di poter esporre i propri dubbi senza che questi gli vengano rimandati dal sanitario. D'altronde non ci aspetteremmo mai che un cardiochirurgo ci chieda: Vostro figlio ha un grave difetto interatriale, che cosa volete fare a riguardo?.

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Che significato ha? 

Il neonato, come ogni individuo, esprime lesue esigenze e i suoi sentimenti e lo fa, nel primo periodo della vita, anche e soprattutto attraverso il pianto. Questo rappresenta quindi la forma di comunicazione dei primi giorni di vita: è il linguaggio del bambino che richiama l'attenzione dei genitori per richiedere nutrimento, aiuto, protezione e conforto. É compito importante dei genitori imparare ad ascoltare e ad interpretare correttamente tale linguaggio.

Cosa fare?
É comprensibile che per molti neo-genitori sia difficile astenersi da un intervento immediato quando sentono il loro bimbo piangere disperato. Il consiglio è invece quello di attendere alcuni istanti prima di intervenire per cercare di capirne le motivazioni, senza "tamponare" (magari offrendo meccanicamente il ciuccio) e far tacere il piccolo non avendo compreso le sue richieste.

Il neonato ha bisogno di sviluppare la sua "voce", di esprimersi e comunicare: le radici della modalità di espressione vengono infatti poste fin dai primi giorni di vita.

Perché piange?
Il piccolo bimbo può piangere perché ha fame, ha il pannolino sporco, l'ambiente che lo circonda è troppo caldo o troppo freddo, se i rumori di sottofondo sono tali da provocargli fastidio o disagio o se ha dolore. Anche lo stato d'animo dei familiari può esserne causa, in quanto l'eccessivo nervosismo o ansietà possono trasmettersi facilmente.

Ascoltando le caratteristiche del pianto, in particolare il suo timbro, la sua intensità e durata, si possono ricavare tante informazioni. Molto schematicamente si possono individuare:
- il pianto da fame: il cui l'inizio è a bassa intensità per poi divenire più forte e ritmico;
- il pianto da dolore: intenso, forte fin dall'inizio e prolungato nel tempo con, a seguire, una fase di silenzio e presenza di singhiozzi alternati a brevi inspirazioni;
- il pianto da collera: simile al pianto da fame, ma con tonalità più bassa ed intensità costante.

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Che fare per tranquillizzarlo?
Occorre entrare in comunicazione con il bambino, senza eccessivi schematismi. Se il pianto non nasce da qualcosa che provoca dolore, fastidio, fame o sete probabilmente deriva dalla necessità di vicinanza e/o di contatto ed attenzione da parte dei genitori; sarà facile verificarlo facendo sentire la propria presenza senza paura di esagerare e di viziarlo. Nel tempo, il sentirsi vicini avverrà non soltanto attraverso il contatto fisico, ma anche e soprattutto attraverso la vista e l'ascolto della voce (soprattutto della mamma e del papà).
Se invece il pianto è frequente, difficile da interpretare ed il pediatra curante non individua una causa patologica, si può incoraggiare il bambino, con gradualità, a calmarsi da solo: i neonati, infatti, sono dotati fin dalla nascita di un sistema interno di auto-consolazione rappresentato dal riflesso di suzione e proprio dal pianto. Intervenendo non subito, ma dopo un lasso di tempo da aumentare gradualmente giorno dopo giorno, in molti casi l'intervento dei genitori non si renderà più necessario in quanto sarà il bambino stesso a smettere in breve tempo di piangere avendo imparato a calmarsi e rilassarsi.

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L'associazione Aquiloni sui temi dell'infanzia propone un ciclo di incontri presso il Negozio Pannolini e Affini aTorino, in via Monastir 8.