Genitorialità
“Allattamento ti saluto”
L’importanza del “NO”
Dall’educazione autoritaria alla supremazia del figlio
Per prima cosa ci troviamo a fare i conti con l’idea che l’ambito familiare debba essere quello dell’armonia affettiva, del benessere, della felicità. Questa è un’idea relativamente recente, sviluppata nel Novecento, che nasce dopo secoli di relazioni familiari caratterizzate da una prospettiva più di natura contrattualistica: i figli nascevano per assicurare la discendenza o garantire il sostentamento economico. I rapporti erano fondamentalmente regolati da un’impostazione paterna di stampo autoritario: il padre comandava, puniva, stabiliva indiscutibilmente i sì e i no. Questo non significa che vi fosse una particolare attenzione educativa: i bambini più che altro crescevano vessati e costretti dentro a no tassativi che generavano sensi di colpa o paura.
Una volta finita l’epoca autoritaria, la prospettiva è diventata invece quella di stampo più materno: concentrata sulla cura, l’accudimento, il figlio posto al centro. L’attenzione a salvaguardarne tutti gli aspetti della crescita diventa preponderante al punto che si realizza una sorta di supremazia del figlio sul genitore, che abdica al proprio ruolo educativo per timore di ferire, procurare qualche danno allo sviluppo, ma anche soprattutto per timore del conflitto.
La difficoltà di dire “no”
Mamme e papà spesso temono che il no comprometta la relazione con i figli. Ma in realtà quell’ansia e quel senso di colpa che proviamo al timore di compromettere un legame così fondamentale attraverso un no, derivano da una matrice infantile che influenza e spesso tiranneggia la nostra competenza conflittuale. La mamma che non riesce a mandare la propria figlia di 6 anni a scuola perché dice che sta male e che i compagni o la maestra le direbbero cose terribili, il padre che non riesce a interrompere il figlio di 12 anni che continua ad usare il suo smartphone anche a tavola, si appellano a una personale difficoltà nel reggere la propria posizione di adulti che indirizzano, rassicurano, regolano, influenzano, attribuendo a queste azioni un effetto sul proprio figlio che loro non reggono. Queste matrici infantili impediscono ai genitori di occuparsi dei figli e li costringono a continuare a occuparsi di sé, delle proprie esperienze infantili nel tentativo di riscattarle e bonificarle. La nostra eventuale sofferenza e frustrazione infantile non hanno nulla a che fare con quella dei nostri figli. Queste matrici ci appartengono, ci hanno permesso di crescere e diventa difficile imparare a farne a meno, ma per certo non servono ai nostri figli.
Abbiamo spesso paura di entrare in conflitto con i nostri figli. Certamente facciamo fatica ad affrontare le lamentele, le richieste estenuanti, i capricci, le tensioni, le urla, ma al di là di questo, ciò che oggi gli adulti mi sembra facciano fatica a gestire più di tutto è la solitudine che deriva dal dire no. Le relazioni conflittuali implicano un elemento di separazione, di alterità e distanza, inevitabile conseguenza della fine dell’illusione che sia possibile realizzare un’unità fusionale non conflittuale. Da un lato dire no ci porta fuori da una sorta di dinamica alienante con cui tendiamo a chiuderci alle esigenze profonde dei nostri figli, a non ascoltarli e a preservare l’equilibrio della relazione senza però metterci in gioco. Dire no significa allora entrare in contatto, riconoscere che oltre a noi esiste anche l’altro. Ma il no è anche conflittuale: sostiene il rapporto e ne accetta le complicazioni, non rinunciandovi neanche in caso di contrasto.
Questi sono i no che servono: di madri e padri che mantengono aperta la relazione con i figli senza subirla. Non si tratta di no arbitrari, estemporanei, reattivi: nascono da un progetto educativo chiaro, e condiviso il più possibile tra i genitori, e hanno l’obiettivo di perseguirlo. Sono i no che ci consentono di dare a nostro figlio, a nostra figlia, un’informazione precisa: “No, non è il momento …”, “No, questo non puoi farlo …”, ma al tempo stesso di mantenere la relazione, di restare in una prospettiva di apertura e di ascolto. Il no ha una funzione regolativa e di indirizzo che si integra bene con la componente affettiva e di legame con i figli. La conflittualità, i litigi, ci permettono di accorgerci che il gioco sta funzionando e che noi genitori siamo al posto giusto.
I “no” nelle diverse fasi di vita
I no che servono alla crescita dei nostri figli spesso non coincidono con i no che ci piacciono come genitori. Sono diversi a seconda dell’età dello sviluppo e rispondono a precise esigenze di crescita e individuazione.
- Nella prima infanzia il no è quello del divieto. Il bambino o la bambina comincia a esplorare il mondo e incontra pericoli o attiva comportamenti che vanno educati, come i famosi “morsicatori” degli asili nido che purtroppo saggiano le guance altrui con i loro dentini aguzzi. Questi no, detti in modo chiaro, immediato e rassicurante, aiutano i bambini a costruirsi una segnaletica di base nel loro muoversi nello spazio. Sono semplici, privi di complicazioni, e non richiedono numerose quanto inutili spiegazioni per lo più incomprensibili ai piccoli.
- Tra la prima e la seconda infanzia i no sono quelli del limite. Si tratta di un’età in cui progressivamente la centratura sul sé del bambino si evolve nelle relazioni tra i pari e nel rapporto con la realtà anche scolastica. In questa fase i no arginano e danno misura alle energie e alla sensazione di onnipotenza sul mondo. Sono no che producono frustrazione, ma in questo senso fondamentali per aiutare i bambini a cogliere i limiti delle proprie possibilità e attivare nuove risorse e competenze. Imparare a gestire la frustrazione che nasce dall’incontro con l’altro è una capacità fondamentale e protettiva per il futuro.
- Nella seconda infanzia e nella preadolescenza il no è quello della regola: consente di consegnare ai ragazzi la bussola per orientarsi nel mondo. Si tratta di un no più complesso degli altri, che punta verso l’autonomia. Erroneamente alcuni pensano ancora che le regole siano limiti alla libertà personale, e invece ogni volta che diamo una regola creiamo uno spazio di separazione e definiamo degli ambiti di possibile esercizio della libertà, consentendo lo sviluppo dell’autonomia.
- Nell’adolescenza invece il no è quello della resistenza. È un no che serve ai ragazzi per aiutarli a scoprire e portare avanti il proprio progetto di vita. Si tratta di mettere dei filtri, dei vincoli, da un lato perché la spinta verso l’autonomia non si tramuti in fuga da se stessi, dall’altro per aiutarli ad accorgersi di ciò che davvero si sta facendo. È un no difficile perché si manifesta spesso attraverso la conflittualità e richiede coraggio e capacità di interrogare e interrogarsi per mettersi davvero in ascolto dei nostri figli. Non possono più esserci no imposti o calati dall’alto ma occorre una negoziazione e la capacità di lasciar andare.
Ciascuno è legato ai propri meccanismi, soprattutto se complessi e nocivi: ne trae dei vantaggi fittizi di cui spesso non si accorge neanche e di cui fatica a liberarsi. Quante volte abbiamo la certezza che stiamo sbagliando eppure non riusciamo a fare diversamente? C’è un momento in cui i vantaggi finiscono di essere tali e diventano ostacoli per le relazioni con i nostri figli.
Se ogni volta allora che diciamo di no, che utilizziamo un no conflittuale, permettiamo ai bambini e ai ragazzi di cercare, di scoprire, di usare le loro risorse, lo stesso avviene per noi: utilizzare un no difficile consente a loro come a noi di attivarsi in prima persona, di metterci del proprio, di scardinare meccanismi e dinamiche poco funzionali all’educazione loro e all’evoluzione nostra.
Le paure dei genitori
- Possiamo aver paura di far soffrire i nostri figli, confondendo sofferenza e frustrazione, magari dimenticando che più che il nostro rifiuto di fronte a una richiesta continua o impossibile, ciò che può davvero ferirli è la sensazione e lo spaesamento di accorgersi che tutto quello che vogliono o chiedono è sullo stesso piano, indifferente.“Va bene, ti compro quel vestito, anche se forse non è adatto alla tua età…” Come genitore non mi metto in ascolto profondo dei tuoi bisogni se tendo a soddisfare indifferentemente tutti quelli che affermi di avere. Oppure rischio, con questo mio atteggiamento di condiscendenza, di alimentare illusioni di onnipotenza che nello sviluppo possono diventare davvero problematiche: “Vuoi andare in vacanza in Grecia perché la tua amica del cuore va lì e altrimenti non ti diverti? Dai, vediamo di organizzarci… noi pensavamo a qualcosa di più vicino ma…”.
- A volte si dice di no perché non si vuole apparire poco disponibile. “Sono un bravo padre, anche se torno tardi, stanco morto, racconto sempre all’infinito la stessa fiaba a mio figlio finché non si addormenta…” Mi chiedo: è necessario per crescere bene? Oppure forse sarebbe più necessario imparare ad addormentarsi da soli? Spesso purtroppo questo comportamento nasce dalla falsa idea che con i figli bisogna essere sempre disponibili: tendiamo a convincerci che i figli abbiano bisogno di tutto il nostro tempo, mentre serve una misura alla disponibilità, che cambia con le diverse fasi della vita e che permette ai figli di fare la loro parte.
- C’è poi il timore di fare un’esperienza di separazione. “Sì, va bene, se ti senti più tranquilla così facciamo come dici tu…” Soprattutto quando il legame è fortemente materno, non dimentichiamo che all’origine la relazione madre-figlio è necessariamente simbiotica, può accadere che risulti difficile separarsi, anche simbolicamente con un no, che però comporta un cambio di posizione, un distacco. Il no determina uno spazio tra noi e nostri figli che non possiamo controllare e conoscere. Una separazione che è sinonimo di autonomia. Senza separazione, senza la distanza che deriva da una decisione educativa, i nostri figli non possono crescere e diventare grandi. Il no è un buon contributo a questo progetto!
(Del dott.Paolo Ragusa, tratto da UPPA)
Il bambino vuole stare sempre in braccio!
Tenere il neonato (o il bimbo piccolo) in braccio significa rispondere a un suo bisogno naturale e fisiologico, fondamentale per il benessere psicofisico. Parola di Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale e autrice di un libro sul tema intitolato “E se poi prende il vizio?”
“Attenta, se lo prendi sempre in braccio già ora che è piccolo, cresce viziato!”. È una sorta di mantra che, pur se con infinite varianti sul tema, ogni neo-mamma si è sentita dire (almeno una volta!) da chi crede di saperla molto più lunga di lei.
Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale, che si occupa da anni di puericultura, parto e allattamento, mamma di due bambine, nel suo libro “E se poi prende il vizio?”, (Il Leone Verde), sostiene però il contrario: tenere in braccio il neonato (o bambino piccolo) significa rispondere a un suo bisogno naturale e fisiologico, molto importante per la sua crescita sana e serena.
L’idea che sia meglio non tenere 'troppo' in braccio il neonato (e il bimbo molto piccolo) ha un qualche fondamento scientifico o no?
Questa convinzione, ancora molto diffusa nella nostra cultura, non ha base oggettiva, né scientifica. La pratica di limitare il contatto fisico tra figlio e genitore è un pregiudizio culturale molto forte.
Il bimbo nasce con un'esperienza di totale avvolgimento e si scontra con questo pregiudizio di chi dice di non prenderlo in braccio. Appena nato ogni piccolo cerca la vicinanza fisica che gli garantisce la sopravvivenza fuori dalla pancia. Si tratta di un bisogno naturale e fisiologico di ogni cucciolo d'uomo, in ogni parte del globo.
“Spesso, da noi, si condivide l'opinione secondo cui un bambino che piange o reclama attenzione è soltanto un bambino viziato, capriccioso o furbo o noioso che vuole distrarre l'adulto senza un motivo valido; come se i bisogni dei bambini fossero trascurabili o, addirittura, come se ignorarli servisse al bebè da palestra di vita per diventare grande, forte e indipendente”. (Alessandra Bortolotti, “E se poi prende il vizio?”, Il Leone Verde).
Ci spieghi meglio: che cosa vuol dire che il contatto fisico è un bisogno naturale e fisiologico di tutti i neonati?
Il tatto è il primo senso che si forma e, attraverso la pelle, le 'informazioni' arrivano al cervello. Già nella vita uterina, verso l'ottava settimana, l'embrione ha una pelle molto sviluppata in grado di reagire agli stimoli. In altre parole, la pelle è l'organo del nostro corpo che si sviluppa per primo e ha maggiori connessioni con il sistema nervoso centrale. Il bisogno di contatto garantisce al bimbo la sopravvivenza fuori dalla pancia. Insomma, non si può vivere senza tatto...
Come scrivo nel mio libro, il bisogno di contatto è anche superiore a quello di nutrimento come dimostrano, per esempio, gli esperimento di H. Harlow sulle scimmie Rhesus in laboratorio. I cuccioli appena nati preferiscono il contatto con una finta mamma ricoperta di pelo sintetico che avvolge ed emana calore, piuttosto che il biberon offerto da una fredda mamma metallica.
Allora, possiamo dire che prendere in braccio un bimbo è importante come nutrirlo e accudirlo ... Insomma, non è mai un vizio?
La vicinanza fisica tra mamma e bambino rientra nella categoria dei bisogni primari ed è fondamentale soddisfarla. Non è certo un vizio e nessuno studio lo dimostra. Dopo nove mesi nella pancia, in una condizione protetta e accogliente, ogni bimbo del mondo cerca, in modo del tutto naturale, le braccia della mamma. Il 'troppo' contatto fisico non esiste, è invece un normale bisogno fisiologico che si modifica a seconda dell'età. Non dimentichiamo che tutte le sensazioni emotive che passano al bimbo attraverso la pelle e il tatto, nell'abbraccio, per esempio, sono importantissime, e benefiche, per la sua crescita psicofisica globale.
Come mai nel mondo occidentale, spesso, sembra che la cosa più importante sia 'staccare' presto, quasi il prima possibile, il bimbo dalla mamma e, già da piccolissimo, renderlo indipendente?
Nella nostra cultura è ancora comune l'idea che l'autonomia del bambino sia favorita da un precoce distacco tra genitore e figlio. L'adulto 'bravo' ci riesce prima, più in fretta, e altrettanto bravo è il bimbo che accetta la situazione senza tante storie. In realtà, questa è solo un'altra convinzione culturale. Non è dimostrato da nessuno studio che i bimbi che vivono un distacco precoce diventino adulti più sicuri e sereni.
Secondo lei, che cosa può dare invece sicurezza al bambino?
Nei primi tre anni di vita, ogni bimbo cerca il contatto fisico per fare 'pieno di sicurezza'. Naturalmente, la 'quantità' di vicinanza e coccole cambia molto per un bebè di tre mesi o un piccolo di due-tre anni. Il bimbo non è un pupazzo inerme privo di capacità ma è competente, si 'muove da solo' verso l'indipendenza, secondo i suoi ritmi. Se cerca sempre la mamma quando è più grande, significa che gli è mancato qualcosa nel primo periodo della sua vita.
Come sostiene lo psicologo e psicoanalista inglese John Bowlby con la sua teoria dell'attaccamento, un buon rapporto con la mamma rappresenta la base sicura indispensabile per esplorare il mondo e crescere sereni e fiduciosi in se stessi.
Il nostro scopo come adulti è dare sicurezza al bambino decodificando i suoi segnali. Se un neonato, per esempio, piange va preso in braccio, poiché esprime un bisogno. Diverso è il caso di un bimbo di due anni che strilla perché vuole una nuova macchinina. Queste sono bizze. Il bisogno di contatto, invece, non ha nulla a che vedere con i 'vizi' e accomuna tutti gli esseri umani”.
Ma a volte le mamme dicono che è difficile, e anche un po' stancante, prendere spesso in braccio il bimbo. Come ci si può comportare pensando al benessere del piccolo?
Dare una risposta al bisogno primario di vicinanza fisica del bambino non vuol dire rinunciare a qualsiasi tipo di attività per sei mesi. Basta ingegnarsi un po'! Come mamma, ho risolto la questione in modo molto semplice, utilizzando la fascia con mia figlia che lascia le mani libere e la possibilità di fare anche altro. E, a sette mesi, la piccola quasi camminava già. Non è vero, infatti, che stare vicino alla mamma dentro la fascia 'blocchi' dal punto di vista fisico il normale sviluppo del neonato nei primi sei mesi vita. Al contrario, la fascia è utilissima e comoda, ma deve adattarsi al singolo bimbo, un po' come un buon paio di scarpe!
Nei primi sei mesi di vita un'ottima soluzione, ancora poco praticata, è anche quella di appoggiare il neonato per terra, vicino a sé, su un tappeto morbido con tanti cuscini intorno. Non è necessario tenerlo sempre nella culla, nell'ovetto o sulla sdraietta che è rigida e può risultare scomoda. Per terra, tra l'altro, il neonato può muoversi, sgambettare e sentirsi più libero. Così, la mamma, per esempio, può stare in cucina e preparare la cena tranquilla con il suo bimbo appoggiato su un tappeto vicino a lei.
E se il bimbo piange disperato, che cosa è meglio fare? C'è chi afferma che è 'furbo' e non fa male lasciarlo piangere, così 'può farsi i polmoni'. Che ne pensa?
Spesso la convinzione di non prendere 'troppo' in braccio il bimbo piccolo, nel primo anno di vita, è considerata altrettanto valida quando piange: un altro pregiudizio su cui è essenziale far chiarezza.
Per un piccolo di cinque-sei mesi, il pianto è l'ultimo segnale, la sua ultima 'risorsa' per dimostrare un qualche disagio. In genere, prima di strillare disperato, avrà cercato di comunicare con l'adulto lanciando altri segnali che probabilmente non sono stati interpretati.
È allora importante prenderlo in braccio e confortarlo. Da uno studio recente è emerso che quando il piccolo urla inconsolabile bastano due minuti perché entri in circolo nell'organismo il cortisolo, l'ormone dello stress. E poi ci vogliono almeno 24 ore affinché venga riassorbito.
Insomma, allora, lasciare il bimbo piangere non gli insegna a essere più forte?
No, il pianto ignorato fa sentire il piccolo incapace di usare quanto la natura gli ha dato, un segnale evidente che il genitore volutamente ignora. Lasciare un bimbo di sei mesi piangere e non prenderlo in braccio come modalità educativa non aiuta certo a renderlo più forte e autonomo. Con questo atteggiamento, non si offre una risposta a un bisogno naturale condiviso da ogni cucciolo d'uomo. E la sua memoria emotiva 'registra' questa mancanza di contatto pur se a livello inconscio.
Fino a tre anni domina infatti l'emisfero destro, quello delle emozioni, che non è cosciente e per questo non possiamo ricordare a livello razionale. Limitare le occasioni di contatto significa privare il bimbo di quelle iniezioni di fiducia così importanti per l'acquisizione dell'autostima, necessaria per una crescita sana e serena.
(Articolo di Marzia Rubega)
Strange Situation
Tutto è cambiato!
Bambini che mordono
Vaccini: il genitore può essere incerto
Pochi temi legati alla salute scatenano dibattiti accesi quello delle vaccinazioni e l’argomento è, recentemente, tornato di grande attualità. Ma quali sono le ragioni più profonde alla base della paura delle vaccinazioni? La risposta è complessa. Le motivazioni del rifiuto fanno capo a meccanismi psicologici e cognitivi scritti nella natura umana, in parte legittimi e comprensibili.
Innanzitutto stiamo parlando della tutela del bene più prezioso, la salute propria e dei propri figli, reazioni emotive e di preoccupazione sono legittime. Il primo ostacolo “psicologico” è che, con la vaccinazione, sto facendo un atto medico volontario e attivo a una persona sana. La percezione dei rischi viene ingigantita dal fatto che ci stiamo dando la possibilità anche remota, di avere effetti collaterali per una minaccia (la malattia contro cui ci vacciniamo) che al momento della vaccinazione non abbiamo, perché siamo sani, e che percepiamo come lontanissima e, quindi, di fatto, impossibile da contrarre. Si tratta di una comune distorsione cognitiva: noi non vediamo più i danni di moltissime malattie infettive nella nostra vita quotidiana e “l'assenza di alcune malattie è come la libertà, ti accorgi di quanto sia importante solo quando l'hai persa».
Un altro fattore che può falsare la percezione dei rischi da vaccinazione è costituito dal verificarsi di un evento temporalmente successivo a una vaccinazione, ma non causato dalla vaccinazione. In questo caso il nostro cervello è portato a trarci in inganno, perché è biologicamente predisposto a trovare connessioni causa-effetto nel mondo che ci circonda, anche quando non ci sono. Il nostro sistema immunitario può gestire simultaneamente fino a 10.000 componenti antigeniche differenti eppure quei 6/7 antigeni a cui scegliamo volontariamente di sottoporlo ci sembrano responsabili di conseguenze terribili.
Così come ci ricorda quotidianamente la pubblicità qualunque farmaco può avere effetti indesiderati anche gravi. Bambini che hanno subito rari ma reali danni da vaccino ce ne sono stati e ce ne saranno ancora anche se il loro numero è molto inferiore a quello indotto dalle malattie per cui esistono i vaccini. Vaccinare equivale a rischiare ma l'alternativa, ovvero non vaccinare, è un rischio altrettanto se non di certo più grave da sostenere.
Quindi la scelta del genitore è sicuramente impegnativa e carica di pensieri. Il genitore ha diritto ad essere informato in maniera imparziale ed oggettiva. I sanitari hanno il compito etico/professionale di non esimersi dal condividere le informazioni e le evidenze scientifiche accurate. La scelta va anche sostenuta ed accompagnata e non sempre la modalità più partecipativa è la più efficace. Uno studio intitolato “The Architecture of Provider-Parent Vaccine Discussions at Health Supervision Visits”, pubblicato su Pediatrics nel 2013, ha esaminato il modo in cui i sanitari hanno discusso le raccomandazioni vaccinali con i genitori e come le diverse tecniche possono avere un impatto d'approvazione dei vaccini. Lo studio ha determinato che, se un sanitario avvia una conversazione con raccomandazioni sulle vaccinazioni utilizzando un “metodo presuntivo”, (come ad esempio: "Beh, dobbiamo fare qualche vaccinazione"), piuttosto che una modalità più partecipativa (come "Che cosa volete fare con le vaccinazioni?"), i genitori sono stati più propensi ad accettare con serenità le raccomandazioni del sanitario ed anche i genitori inizialmente esitanti hanno accettato le raccomandazioni alle vaccinazioni fornite dal sanitario se lo stesso ha continuato a perseguirle mostrando di non desistere dalle proprie convinzioni. Insomma i genitori per superare le normali preoccupazioni che talvolta gli impediscono la scelta necessitano di una guida sicura e di poter esporre i propri dubbi senza che questi gli vengano rimandati dal sanitario. D'altronde non ci aspetteremmo mai che un cardiochirurgo ci chieda: Vostro figlio ha un grave difetto interatriale, che cosa volete fare a riguardo?.
Perchè piangi?
Che significato ha?
Il neonato, come ogni individuo, esprime lesue esigenze e i suoi sentimenti e lo fa, nel primo periodo della vita, anche e soprattutto attraverso il pianto. Questo rappresenta quindi la forma di comunicazione dei primi giorni di vita: è il linguaggio del bambino che richiama l'attenzione dei genitori per richiedere nutrimento, aiuto, protezione e conforto. É compito importante dei genitori imparare ad ascoltare e ad interpretare correttamente tale linguaggio.
Cosa fare?
É comprensibile che per molti neo-genitori sia difficile astenersi da un intervento immediato quando sentono il loro bimbo piangere disperato. Il consiglio è invece quello di attendere alcuni istanti prima di intervenire per cercare di capirne le motivazioni, senza "tamponare" (magari offrendo meccanicamente il ciuccio) e far tacere il piccolo non avendo compreso le sue richieste.
Il neonato ha bisogno di sviluppare la sua "voce", di esprimersi e comunicare: le radici della modalità di espressione vengono infatti poste fin dai primi giorni di vita.
Perché piange?
Il piccolo bimbo può piangere perché ha fame, ha il pannolino sporco, l'ambiente che lo circonda è troppo caldo o troppo freddo, se i rumori di sottofondo sono tali da provocargli fastidio o disagio o se ha dolore. Anche lo stato d'animo dei familiari può esserne causa, in quanto l'eccessivo nervosismo o ansietà possono trasmettersi facilmente.
Ascoltando le caratteristiche del pianto, in particolare il suo timbro, la sua intensità e durata, si possono ricavare tante informazioni. Molto schematicamente si possono individuare:
- il pianto da fame: il cui l'inizio è a bassa intensità per poi divenire più forte e ritmico;
- il pianto da dolore: intenso, forte fin dall'inizio e prolungato nel tempo con, a seguire, una fase di silenzio e presenza di singhiozzi alternati a brevi inspirazioni;
- il pianto da collera: simile al pianto da fame, ma con tonalità più bassa ed intensità costante.
Che fare per tranquillizzarlo?
Occorre entrare in comunicazione con il bambino, senza eccessivi schematismi. Se il pianto non nasce da qualcosa che provoca dolore, fastidio, fame o sete probabilmente deriva dalla necessità di vicinanza e/o di contatto ed attenzione da parte dei genitori; sarà facile verificarlo facendo sentire la propria presenza senza paura di esagerare e di viziarlo. Nel tempo, il sentirsi vicini avverrà non soltanto attraverso il contatto fisico, ma anche e soprattutto attraverso la vista e l'ascolto della voce (soprattutto della mamma e del papà).
Se invece il pianto è frequente, difficile da interpretare ed il pediatra curante non individua una causa patologica, si può incoraggiare il bambino, con gradualità, a calmarsi da solo: i neonati, infatti, sono dotati fin dalla nascita di un sistema interno di auto-consolazione rappresentato dal riflesso di suzione e proprio dal pianto. Intervenendo non subito, ma dopo un lasso di tempo da aumentare gradualmente giorno dopo giorno, in molti casi l'intervento dei genitori non si renderà più necessario in quanto sarà il bambino stesso a smettere in breve tempo di piangere avendo imparato a calmarsi e rilassarsi.
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L'associazione Aquiloni sui temi dell'infanzia propone un ciclo di incontri presso il Negozio Pannolini e Affini aTorino, in via Monastir 8.
Adolescenza e genitorialità
"Con l’adolescenza, il figlio bambino “scompare” prendendo le distanze dal rapporto con i genitori.
I profondi cambiamenti che ne derivano, portano spesso mamma e papà ad essere relegati in “panchina”.
Un figlio adolescente vuole fare da sé e sente che è arrivato il momento di poter gestire le relazioni della propria vita. Ciò non significa abbandonare il proprio ruolo di genitore ma vuoldire limitarsi ad osservare l’adolescente che cambia, scegliendo di stare un passo “dietro” la scena familiare.
LA SVILUPPO DELL’IDENTITÀ DELL’ADOLESCENTE
Secondo la teoria degli stadi esistenziali postulata da Erikson, l’adolescenza corrisponde allo stadio della “crisi d’identità”, la cui soluzione sta nell’abbandonare l’identità della fanciullezza e nel costruirne una nuova e più adeguata per l’ingresso nell’età adulta. La soluzione buona di questa crisi, secondo lo stesso autore, porta ad un’identità positiva e capace di perseguire finalità precise per sé e per la società.
Molti psicologi dello sviluppo non concordano con l’idea di Erikson che la ricerca di una propria identità implichi necessariamente una “crisi”, ma quasi tutti sono d’accordo nel ritenere che l’adolescenza è un periodo in cui i giovani adottano, consciamente o no, regole di comportamento tali da permettere il realizzarsi di questo passaggio.
L’acquisizione dell’identità implica un conflitto assai rilevante per la persona e si realizza nell’adolescenza e nella giovinezza, periodo in cui la dotazione biologica dell’individuo ed i processi intellettuali devono incontrare le attese sociali per una dimostrazione adeguata di funzionamento adulto. L’identità dipende dal passato e determina il futuro, è radicata nelle esperienze dell’infanzia e serve da base su cui incontrare poi la vita futura ed i compiti vitali connessi.
Allo strutturarsi dell’identità dell’adolescente contribuiscono oltre che la sua dotazione biologica, i vari ambienti di vita di appartenenza (la famiglia, i coetanei, la scuola..) e, in ultima analisi, l' insieme dei valori culturali che sono veicolati da questi microsistemi e che contribuiscono nel loro insieme a dare significato all’esistenza unica di quel ragazzo (macrosistema). In particolar modo, le relazioni con i coetanei diventano le più importanti in questo periodo e rispondono all’esigenza di autonomia. I contesti extrafamiliari consentono di “interpretare” ruoli diversi da quelli da sempre “recitati” in famiglia, ma anche di scoprire aspetti di sé che non avevano ancora avuto modo di emergere.
Il passaggio che porta alla formazione della nuova identità è esaltante ma nello stesso tempo doloroso perché il ragazzo deve scegliere una prospettiva esistenziale unica, sapendo trovare una sintesi armonica e originale dei vari aspetti di sé. Chi ha superato la crisi in modo positivo (con le parole di Erikson), ha messo in atto un’esplorazione efficace delle possibilità presenti nei diversi ambienti vitali ed ha assunto in loro impegni seri. In altre parole, è stato capace di prendere una direzione ferma sugli impegni e di rinunciare ad altre alternative di vita possibili e che sentiva altrettanto gratificanti."
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