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E’ raro assistere oggigiorno ad un cerchio di persone ormai. Eppure nell’antichità era prassi comune, quasi quotidiana.

Il cerchio di persone ha innumerevoli e magnifici significati e proprio per questo è bene riprenderci questa modalità di relazionarci l’un l’altro, questo modo arcaico di ricollegarsi alla natura.

Il cerchio richiama la forma del sole e della luna (elementi naturali contrapposti e complementari), non ha un inizio né una fine, non ha direzione né orientamento, demarca uno spazio interno che non si connette con ciò che sta fuori (simbolo di protezione e difesa).

Anche Jung ha voluto riprendere il significato del cerchio: “Il simbolo del cerchio, si manifesti nel culto solare dei primitivi o nelle religioni moderne, nei miti o nei sogni, nei motivi mandala dei monaci tibetani, nei piani astronomici, indica sempre l’aspetto essenziale della vita, la sua complessiva e definitiva globalità”.

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Un tempo ci si riuniva in cerchio per discutere, per danzare, per condividere. Il cerchio di persone fa sì che nessuno è a capo della situazione ma tutti sono chiamati con la propria individualità a dare forma e anima al cerchio, tutti possono guardarsi negli occhi, tutti hanno ugual valenza. Non ci sono scrivanie o tavoli che dividono le persone, al massimo un fuoco o una candela nel mezzo che le unisce (il centro del cerchio è infatti di fondamentale importanza, rappresenta una guida, un punto di riferimento che non si deve perdere).

Il cerchio di persone, oggigiorno, si può vivere nelle tribù antiche ma anche nella nostra società. Sono soprattutto tre infatti le situazioni dove possiamo ritrovare ancora la sacralità del cerchio (quest’ultimo viene creato anche in tante altre realtà come quella terapeutica di gruppo).

1- I cerchi di donne. Pian piano si stanno diffondendo sempre più. Sono cerchi organizzati da associazioni o da persone singole aperti a tutte le donne. Quest’ultime, infatti, sono più sensibili al tema e stanno riscoprendo questo bisogno originario di relazione. Grazie alle tende rosse (stanze o vere e proprie tende rosse che ospitano donne in cerchio che vivono rituali, danze o semplicemente momenti di confronto), i cerchi femminili sono sempre più diffusi.

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2- La scuola Waldorf vive il cerchio in modo quotidiano. I bambini dell’asilo ogni mattina iniziano la giornata con un girotondo accompagnato da una canzone in tema con il periodo dell’anno che stanno vivendo, è una sorta di preghiera e di connessione con il creato. I ragazzi più grandi fanno spesso il cerchio all’interno delle aule e sempre durante le ricorrenze più importanti dell’anno come Natale o San Michele. Le conferenze delle scuole aperte al pubblico sono organizzate spesso in cerchio e le riunioni tra insegnanti si aprono in cerchio con un canto.

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3- I bambini, soprattutto se piccoli, amano riunirsi naturalmente insieme agli amichetti in cerchio per fare girotondi e per parlare (sono forse i cerchi più belli perché i più spontanei e naturali).

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E voi avete mai provato a mettervi in cerchio? Organizzatene uno con i vostri amici per festeggiare un compleanno o un’occasione importante, sperimentatelo in famiglia prima di andare a dormire, vivetelo tra donne… Al centro del cerchio posizionate qualcosa di significativo per quell’occasione, fatelo al buio o alla luce, all’esterno o all’interno, con poche o tante persone, in silenzio o parlando, con gli occhi chiusi o aperti, seduti o in piedi… Ogni volta che lo sperimenterete sarà sempre diverso ma sempre molto intenso.

E se il cerchio di persone vi emana tanta positività circondatevi di cerchi: colorate mandala, addobbate una parete importante della vostra casa con soli, lune e figure circolari, posizionate candele in modo circolare, costruitevi una Mandala Home.

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Speriamo davvero che il cerchio invada completamente le nostre vite per poterci far vivere in modo più sacro e genuino.

Elena Bernabè

(tratto da http://www.eticamente.net/49121/mettersi-in-cerchio-i-magnifici-significati-di-una-pratica-semplice-ma-potente.html?refresh_ce)

Tenere il neonato (o il bimbo piccolo) in braccio significa rispondere a un suo bisogno naturale e fisiologico, fondamentale per il benessere psicofisico. Parola di Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale e autrice di un libro sul tema intitolato “E se poi prende il vizio?”

 
 

“Attenta, se lo prendi sempre in braccio già ora che è piccolo, cresce viziato!”. È una sorta di mantra che, pur se con infinite varianti sul tema, ogni neo-mamma si è sentita dire (almeno una volta!) da chi crede di saperla molto più lunga di lei.

Alessandra Bortolotti, psicologa perinatale, che si occupa da anni di puericultura, parto e allattamento, mamma di due bambine, nel suo libro “E se poi prende il vizio?”, (Il Leone Verde), sostiene però il contrario: tenere in braccio il neonato (o bambino piccolo) significa rispondere a un suo bisogno naturale e fisiologico, molto importante per la sua crescita sana e serena.

L’idea che sia meglio non tenere 'troppo' in braccio il neonato (e il bimbo molto piccolo) ha un qualche fondamento scientifico o no?

Questa convinzione, ancora molto diffusa nella nostra cultura, non ha base oggettiva, né scientifica. La pratica di limitare il contatto fisico tra figlio e genitore è un pregiudizio culturale molto forte.

Il bimbo nasce con un'esperienza di totale avvolgimento e si scontra con questo pregiudizio di chi dice di non prenderlo in braccio. Appena nato ogni piccolo cerca la vicinanza fisica che gli garantisce la sopravvivenza fuori dalla pancia. Si tratta di un bisogno naturale e fisiologico di ogni cucciolo d'uomo, in ogni parte del globo.

“Spesso, da noi, si condivide l'opinione secondo cui un bambino che piange o reclama attenzione è soltanto un bambino viziato, capriccioso o furbo o noioso che vuole distrarre l'adulto senza un motivo valido; come se i bisogni dei bambini fossero trascurabili o, addirittura, come se ignorarli servisse al bebè da palestra di vita per diventare grande, forte e indipendente”. (Alessandra Bortolotti, “E se poi prende il vizio?”, Il Leone Verde).

Ci spieghi meglio: che cosa vuol dire che il contatto fisico è un bisogno naturale e fisiologico di tutti i neonati?

Il tatto è il primo senso che si forma e, attraverso la pelle, le 'informazioni' arrivano al cervello. Già nella vita uterina, verso l'ottava settimana, l'embrione ha una pelle molto sviluppata in grado di reagire agli stimoli. In altre parole, la pelle è l'organo del nostro corpo che si sviluppa per primo e ha maggiori connessioni con il sistema nervoso centrale. Il bisogno di contatto garantisce al bimbo la sopravvivenza fuori dalla pancia. Insomma, non si può vivere senza tatto...

Come scrivo nel mio libro, il bisogno di contatto è anche superiore a quello di nutrimento come dimostrano, per esempio, gli esperimento di H. Harlow sulle scimmie Rhesus in laboratorio. I cuccioli appena nati preferiscono il contatto con una finta mamma ricoperta di pelo sintetico che avvolge ed emana calore, piuttosto che il biberon offerto da una fredda mamma metallica.

Allora, possiamo dire che prendere in braccio un bimbo è importante come nutrirlo e accudirlo ... Insomma, non è mai un vizio?

La vicinanza fisica tra mamma e bambino rientra nella categoria dei bisogni primari ed è fondamentale soddisfarla. Non è certo un vizio e nessuno studio lo dimostra. Dopo nove mesi nella pancia, in una condizione protetta e accogliente, ogni bimbo del mondo cerca, in modo del tutto naturale, le braccia della mamma. Il 'troppo' contatto fisico non esiste, è invece un normale bisogno fisiologico che si modifica a seconda dell'età. Non dimentichiamo che tutte le sensazioni emotive che passano al bimbo attraverso la pelle e il tatto, nell'abbraccio, per esempio, sono importantissime, e benefiche, per la sua crescita psicofisica globale.

Come mai nel mondo occidentale, spesso, sembra che la cosa più importante sia 'staccare' presto, quasi il prima possibile, il bimbo dalla mamma e, già da piccolissimo, renderlo indipendente?

Nella nostra cultura è ancora comune l'idea che l'autonomia del bambino sia favorita da un precoce distacco tra genitore e figlio. L'adulto 'bravo' ci riesce prima, più in fretta, e altrettanto bravo è il bimbo che accetta la situazione senza tante storie. In realtà, questa è solo un'altra convinzione culturale. Non è dimostrato da nessuno studio che i bimbi che vivono un distacco precoce diventino adulti più sicuri e sereni.

Secondo lei, che cosa può dare invece sicurezza al bambino?

Nei primi tre anni di vita, ogni bimbo cerca il contatto fisico per fare 'pieno di sicurezza'. Naturalmente, la 'quantità' di vicinanza e coccole cambia molto per un bebè di tre mesi o un piccolo di due-tre anni. Il bimbo non è un pupazzo inerme privo di capacità ma è competente, si 'muove da solo' verso l'indipendenza, secondo i suoi ritmi. Se cerca sempre la mamma quando è più grande, significa che gli è mancato qualcosa nel primo periodo della sua vita.

Come sostiene lo psicologo e psicoanalista inglese John Bowlby con la sua teoria dell'attaccamento, un buon rapporto con la mamma rappresenta la base sicura indispensabile per esplorare il mondo e crescere sereni e fiduciosi in se stessi.

Il nostro scopo come adulti è dare sicurezza al bambino decodificando i suoi segnali. Se un neonato, per esempio, piange va preso in braccio, poiché esprime un bisogno. Diverso è il caso di un bimbo di due anni che strilla perché vuole una nuova macchinina. Queste sono bizze. Il bisogno di contatto, invece, non ha nulla a che vedere con i 'vizi' e accomuna tutti gli esseri umani”.

Ma a volte le mamme dicono che è difficile, e anche un po' stancante, prendere spesso in braccio il bimbo. Come ci si può comportare pensando al benessere del piccolo?

Dare una risposta al bisogno primario di vicinanza fisica del bambino non vuol dire rinunciare a qualsiasi tipo di attività per sei mesi. Basta ingegnarsi un po'! Come mamma, ho risolto la questione in modo molto semplice, utilizzando la fascia con mia figlia che lascia le mani libere e la possibilità di fare anche altro. E, a sette mesi, la piccola quasi camminava già. Non è vero, infatti, che stare vicino alla mamma dentro la fascia 'blocchi' dal punto di vista fisico il normale sviluppo del neonato nei primi sei mesi vita. Al contrario, la fascia è utilissima e comoda, ma deve adattarsi al singolo bimbo, un po' come un buon paio di scarpe!

Nei primi sei mesi di vita un'ottima soluzione, ancora poco praticata, è anche quella di appoggiare il neonato per terra, vicino a sé, su un tappeto morbido con tanti cuscini intorno. Non è necessario tenerlo sempre nella culla, nell'ovetto o sulla sdraietta che è rigida e può risultare scomoda. Per terra, tra l'altro, il neonato può muoversi, sgambettare e sentirsi più libero. Così, la mamma, per esempio, può stare in cucina e preparare la cena tranquilla con il suo bimbo appoggiato su un tappeto vicino a lei.

E se il bimbo piange disperato, che cosa è meglio fare? C'è chi afferma che è 'furbo' e non fa male lasciarlo piangere, così 'può farsi i polmoni'. Che ne pensa?

Spesso la convinzione di non prendere 'troppo' in braccio il bimbo piccolo, nel primo anno di vita, è considerata altrettanto valida quando piange: un altro pregiudizio su cui è essenziale far chiarezza.

Per un piccolo di cinque-sei mesi, il pianto è l'ultimo segnale, la sua ultima 'risorsa' per dimostrare un qualche disagio. In genere, prima di strillare disperato, avrà cercato di comunicare con l'adulto lanciando altri segnali che probabilmente non sono stati interpretati.

È allora importante prenderlo in braccio e confortarlo. Da uno studio recente è emerso che quando il piccolo urla inconsolabile bastano due minuti perché entri in circolo nell'organismo il cortisolo, l'ormone dello stress. E poi ci vogliono almeno 24 ore affinché venga riassorbito.

Insomma, allora, lasciare il bimbo piangere non gli insegna a essere più forte?

No, il pianto ignorato fa sentire il piccolo incapace di usare quanto la natura gli ha dato, un segnale evidente che il genitore volutamente ignora. Lasciare un bimbo di sei mesi piangere e non prenderlo in braccio come modalità educativa non aiuta certo a renderlo più forte e autonomo. Con questo atteggiamento, non si offre una risposta a un bisogno naturale condiviso da ogni cucciolo d'uomo. E la sua memoria emotiva 'registra' questa mancanza di contatto pur se a livello inconscio.

Fino a tre anni domina infatti l'emisfero destro, quello delle emozioni, che non è cosciente e per questo non possiamo ricordare a livello razionale. Limitare le occasioni di contatto significa privare il bimbo di quelle iniezioni di fiducia così importanti per l'acquisizione dell'autostima, necessaria per una crescita sana e serena.

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(Articolo di Marzia Rubega)